Etnografie: appunti per una futura storia degli studi (2).
(Seconda parte; qui la prima e qui la terza).
Occorre rilevare che nella fase iniziale che seguì alla popolarizzazione di Internet, come nuovo e straordinario mezzo di comunicazione, è stata fisiologicamente enfatizzata una sua concettualizzazione come spazio autonomo, come ambiente sociale a sé, slegato dai contesti e dalle modalità sociali off-line in cui viene effettivamente utilizzato. Si veda ad esempio un articolo del sottoscritto datato 1998 — La rete riflette su se stessa. Introduzione allo studio delle cyber-culture — del quale queste righe vogliono essere un modesto aggiornamento, in cui veniva presa in considerazione quasi esclusivamente la dimensione del mondo on-line.
Per completare tale quadro vanno aggiunte alcune considerazioni, provenienti dall’ambito delle discipline antropologiche nella loro dimensione più ufficialmente accademica, sull’affermarsi di tali temi di ricerca.
Legittimare il cyberspazio come oggetto di ricerca antropologico non è certo impresa facile, come ci ricordano le considerazioni di James Clifford a proposito del “campo virtuale”:
“Che dire se qualcuno si desse a studiare la cultura degli hacker (un progetto di ricerca antropologica perfettamente accettabile in molti, se non tutti, i dipartimenti accademici) e nel corso dell’indagine non incrociasse mai, non “interfacciasse”, un solo hacker in carne ed ossa? Potrebbero i mesi, magari gli anni, spesi a navigare sulla rete, essere considerati lavoro sul campo? La ricerca potrebbe benissimo superare sia i test di durata di soggiorno sia quelli di “profondità” e interattività. (Sappiamo quante strane e intense conversazioni si possono svolgere su Internet). E, dopotutto, il viaggio elettronico è un tipo di dépaysament. Potrebbe dar luogo a un’intensa osservazione partecipante di una diversa comunità senza mai lasciare fisicamente casa propria. Quando ho chiesto ad alcuni antropologi se questo potrebbe essere considerato lavoro sul campo, essi hanno generalmente risposto “può darsi”, anzi, in un caso, “ovviamente”. Ma quando, insistendo, ho domandato se sarebbero disposti a seguire una tesi di laurea basata principalmente su questo tipo di ricerca immateriale, hanno esitato o risposto di no: non sarebbe lavoro sul campo attualmente accettabile. Date le tradizioni della disciplina, si sconsiglierebbe a un laureando di seguire un simile iter di ricerca. Noi ci opponiamo alle limitazioni storico-istituzionali che rafforzano la distinzione fra il lavoro sul campo e un più ampio ventaglio di attività etnografiche. Il lavoro sul campo in antropologia è sedimentato con la storia della disciplina, e continua a funzionare come un rito di passaggio e un marcatore di professionalità.” (Clifford, 1999, 81-82)
David Hakken, professore di antropologia alla State University di New York, uno dei primi a interessarsi sistematicamente alla questione, elenca una serie di motivazioni per giustificare l’interesse degli antropologi per le le tecnologie avanzate della comunicazione (Advanced Information Technologies, AIT) :
1) le tecnologie avanzate dell’informazione sono strumenti che hanno la capacità di mediare la riproduzione culturale in modalità profondamente diverse dalle precedenti tecnologie dell’informazione (come, ad esempio, la conversazione interpersonale o il libro a stampa);
2) le AIT entrano fortemente nelle vite di tante persone studiate dagli antropologi, e non è quindi più possibile ignorarle;
3) in molti sono convinti che la società contemporanea stia attraversando la fase di “rivoluzione del computer”, e malgrado le difficoltà nel documentarla vale la pena di studiare la percezione stessa di questa supposta rivoluzione;
4) come mezzo di rappresentazione, il computer stimola affascinanti questioni sulle modalità in cui la cultura è generata e riprodotta;
5) dal momento che una buona parte dell’antropologia riguarda il cambiamento culturale, comprendere il processo d’informatizzazione è centrale per capire le modalità di riproduzione delle formazioni sociali contemporanee;
6) studiare sul campo le AIT potrebbe fornire l’opportunità di valutare metodi che vengono utilizzati per analizzare trasformazioni culturali che possono essere studiate solo indirettamente – come lo studio di siti archeologici, le ricostruzioni linguistiche o i residui contemporanei dei cambiamenti che accaddero nel passato (ad esempio, la diffusione dell’industrializzazione e del capitalismo) (Hakken, 1999, 44) .
Dalle considerazioni di Clifford e di Hakken possiamo dedurre alcune osservazioni su cosa significhi studiare le nuove tecnologie dell’informazione, e in particolare Internet dal punto di vista delle scienze sociali e in particolar modo dell’antropologia. Nel primo caso Clifford sembra ipotizzare un “campo” esclusivamente virtuale. Internet con le sue particolarità tecniche con i suoi spazi di comunicazione interattivi (e-mail, chat, mud, forum, ecc.) è un “campo” a sé in cui non è prevista, se non sporadicamente, l’interazione corporea, faccia a faccia, con coloro che si appresta studiare.
Nel caso di Hakken le AIT entrano nel suo campo di studio non come ambienti esclusivamente virtuali, ma perché, in quanto mezzi, entrano a far parte della vita di coloro che l’antropologo studia. Tali tecnologie non rappresentano un campo a sé, ma sono implicate nei meccanismo di produzione e riproduzione della cultura delle persone, nei contesti territoriali o anche dispersi in gruppi non-virtuali di persone.
( Fine seconda parte di tre — Qui la prima parte e quiqui la terza.)
Perplessità legittime certo quelle degli antropologi, tuttavia io ho sempre pensato che lo studio delle comunità umane in internet fosse un campo privilegiato di osservazione partecipante, ma non così condizionante quanto la presenza fisica. E poi, immagimarsi di studiare la genesi dei comportamenti umani in condizioni eterotipiche, quasi come condizioni in vitro…Una manna dal cielo proprio per gli antropologi. Non deve essere un caso forse che è questo ambito disciplinare – piuttosto che nelle altre scienze sociali – che si registrano gli studi più corposi…
…studi che pero’ non sono considerati veri e propri studi sul campo…perche’, a parte alcuni casi neppure troppo recenti, il trucco sta proprio nel non sprofondare nell’analisi in vitro — e molte ricerche, ahime’, abboccano senza problemi…
La questione intorno a cui gira il rapporto tra antropologi e Internet, è nella considerazione della dimensione off-line. Gli antropologi abituati ad avere a che fare con persone in carne ed ossa, a dialogare, e partecipare fisicamente agli eventi che descrivono e studiano, non si sentono particolarmente a loro agio nell’ambiente virtuale. Nell’ambito britannico specialmente , quasi tutti gli studi su Internet condotti da antropologi prendono in considerazione una o un’altra comunità, o un certo gruppo territorialmente definito e se ne indaga lì’uso che tale gruppo fa di Internet.
Bisognerebbe definire meglio che intendiamo “in vitro” , a me ad esempio sono sempre sembrate “in vitro” certe ricerche sui nuovi media effettuate nelle aziende o quelle effettuate da psicologi su gruppi campione ecc..