E-vote come scorciatoia partecipativa? No, grazie!
“Quando usiamo dispositivi muniti di leve, macchine tipo touch-screen o Internet, non siamo noi a votare ma la macchina. Inseriamo la nostra scelta, e speriamo che la macchina la registri in modo corretto.” Questa l’opinione dell’ambientalista Lynn Landes, riportata in un lungo articolo di Wired News sugli intricati impicci del voto elettronico made in USA. Articolo da leggere con molta attenzione, e che si pone nella schietta tradizione dell’investigative journalism statunitense — una specie in galoppante via d’estinzione. Vi vengono ripercorse, con estrema dovizia di particolari, le tappe di quello che sembra diventato un vero e proprio movimento trasversale a tutela del processo democratico. Processo che, oggi più che mai, non necessita di scorciatoie ne tecniche né tantomeno concettuali. Anche quando si dovesse arrivare ad un “voto assolutamente pulito” grazie all’info-tech — caso altamente improbabile, visto che la natura stessa dell’informatica prevede comunque un margine d’insicurezza — ciò creerebbe soltanto un’ulteriore illusione di maggiore partecipazione alla res publica.
Negli ultimi mesi un pugno di attivisti è riuscito a sbattere in prima pagina un argomento considerato a dir poco noioso da media, politici e pubblico USA — le dinamiche del voto elettronico. Dopo le vicissitudini delle presidenziali 2000 in Florida, questo sembra anzi la soluzione di tutti i mali del sistema elettorale, e per estensione quasi naturale di quello politico. È opinione diffusa che tale soluzione sia del tutto inevitabile, anzi auspicabile, poiché la relativa tecnologia sarebbe ormai sicura, affidabile, garantita. O quasi. Anzi, in Europa un’apposita Commissione punta persino a stabilire delle “condizioni imprescindibili” onde attivare simili sistemi. Il tutto come strumento principe, così si dice, per far risalire i tassi di partecipazione elettorale sempre più in ribasso. Peccato che le cose non stiano proprio così, come chiarisce lo special report di Wired News e forse soprattutto quanto va letto tra le righe (o i bit). Punto cruciale rimane il ruolo dei cittadini, lo scrutinio pubblico, il fatto che la “gente vuole risposte”, come suggerisce Bev Harris, ideatrice, tra l’altro, del libro-progetto BlackBoxVoting. E quindi il gran lavoro di scavo per portare alla luce gli inghippi dei produttori di macchine per e-voting, i loro continui intrecci con politici di alto rango, e finanche il disinteresse dei tribunali e delle autorità locali. Di pari passo ovviamente alla puntuale annotazione di dati strampalati quando non fasulli (anche durante recenti elezioni, come il recall per il governatore in California), grossi bachi alla sicurezza, software e hardware inaffidabile, mancanza di verifiche su carta. Non si sono ancora scoperte vere frodi sul campo, ma avvocati e attivisti giurano che sia solo questione di tempo. Mentre consorzi industriali, esperti qualificati e finanche appositi disegni di legge parlamentari spingono per la necessità di riformare le attuali disposizioni (e annesse macchine): obbligatorio il riscontro cartaceo di ogni voto espresso tramite quasiasi sistema elettronico. Ma il brillante excursus degli attivisti a stelle e strisce va aprendo una sorta di vaso di Pandora. Perché non basta concentrarsi sul momento del voto per allargare l’area della partecipazione. Perché il processo democratico non ha bisogno di scorciatoie per esprimersi, meno che mai quelle pseudo-tecnologiche. Perché servono, semmai, delle “allungatoie”: creare cento-mille canali di confronto pubblico, aprire al massimo il dibattito tra istituzioni e cittadini, ideare nuovi strumenti per il dialogo in ogni sede. Va cioè tenuta a mente la continua lezione del medium internet — stimolo per il coinvolgimento personale di molta gente, rete decentrata per l’attivismo di base. Al pari dell’esperienza della campagna online di Howard Dean, o forse ancor meglio del network MoveOn.orgo centrale non è tanto il raggiungimento di voti elettorali quanto piuttosto la messa in moto delle istanze partecipative grazie al rilancio di una comunicazione veramente aperta, trasversale. Ben vengano dunque tute le iniziative di base perché ogni voto conti e sia contato appropriatamente dai sistemi elettronici odierni o futuri. Ma ancor più e meglio, va sfruttata la duttilità del digitale per ampliare le molteplici fasi del processo democratico, rispedendo al mittente ogni offerta di scorciatoie tanto pericolose quanto inutili.[Quest’articolo appare oggi in contemponea su QuintoStato.it]