La regionalizzazione della ragione
L’autorizzazione a pubblicare l’articolo è stata gentilmente concessa dall’autore
Franco Cassano è professore di Sociologia e di Sociologia della conoscenza alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bari.
Da tempo l’immagine del sud non sommava fotogrammi così inquietanti: la crisi dei rifiuti, il successo di un film aspro come Gomorra, l’aumento del divario dalle altre regioni italiane, l’impennata dell’emigrazione giovanile qualificata. Anche studiosi seri sembrano aver gettato la spugna: la cultura del sud, affermano, con la sua bassissima capacità di formare capitale sociale e senso civico, è irredimibile. E su questo quadro apocalittico arriva implacabile il cinismo degli editoriali che proclamano la necessità di riconoscere “coraggiosamente” la realtà ed emettono un verdetto scontato: federalismo fiscale e secessione dolce del nord dal sud.
Ci sarebbe molto da discutere sul manicheismo interessato di questo quadro, sulle sue omissioni e sulla sua capacità di ridurre il sud ad un’immagine di maniera, in cui l’esaltazione delle patologie e l’irrilevanza delle pagine nuove tornano utili a chi ha puntato tutto sulla priorità della questione settentrionale. E sarebbe sicuramente utile discutere della gracilità culturale del meridionalismo della seconda metà degli anni Novanta, di quel trionfalismo che vantava come una conquista la fine della questione meridionale. Ma il discorso sarebbe lungo, mentre il proposito di queste note è quello più limitato di mettere a fuoco un problema.
L’impressione è che al sud si sia avviato da tempo un processo di regionalizzazione della ragione e che il respiro delle elites politiche ed intellettuali si sia drammaticamente contratto. All’inizio tale contrazione dello sguardo ha probabilmente rappresentato un progresso perché ha sostituito ad una narrazione di maniera l’analisi concreta delle diversità e la costruzione di specifiche politiche territoriali. Ma la regionalizzazione dell’orizzonte comporta anche il rischio che non ci s’interroghi più sulle connessioni tra un sud e l’altro e sul rapporto tra il sud e il contesto nazionale e globale. Il risultato è che oggi ogni regione vive questa crisi del Mezzogiorno chiusa in se stessa e, non riuscendo a vedere una via d’uscita, sente crescere un sentimento di impotenza.
Conviene allora approfittare di questo passaggio difficile per mettere a fuoco alcune delle sindromi che affliggono le diverse sezioni delle classi dirigenti del sud. Non si può che partire da Napoli, noblesse oblige. Napoli è affetta dalla sindrome della capitale, da un modo di pensare che la porta a vedere le proprie vicende come espressione dell’intero Mezzogiorno e quindi a negare la reale policentricità di esso e la rilevanza e il valore di tutto ciò che accade oltre i propri confini. Questa immagine tradizionale di Napoli come riassunto emblematico del sud è cara non solo a molti napoletani, ma anche a molti opinionisti anche perché offre ad essi un’innegabile economia di pensiero. Ma questa sindrome non aiuta Napoli, perché la tiene lontana dal suo problema: la necessità di prendere le distanze da una grandezza che è all’origine sì delle sue eccellenze, ma anche delle sue patologie, in primis dalla terribile conurbazione che la strozza molto di più di quanto non la arricchisca. E’ la stessa Napoli che ha bisogno di pensarsi in un altro modo, non più capitale, ma nodo decisivo di un sud policentrico.
La sindrome che affligge la Puglia è invece, quella della regina di Biancaneve, la tentazione di sentirsi la più bella del reame. Rispetto a Napoli la Puglia si sente più vitale e concreta, meno raffinata, ma più dinamica. Nel Salento questo orgoglio si trasforma nella sindrome dell’assoluta specialità, che affianca ad un’innegabile vitalità creativa i rischi di un narcisismo acritico. Le ragioni di questo sentimento di diversità rispetto alle altre regioni del sud non sono immaginarie: la Puglia, negli anni novanta, ha registrato alcuni successi nella lotta contro la malavita organizzata, ha dato alla prospettiva del Mediterraneo la concretezza delle politiche di prossimità con l’altra sponda adriatica, ha conosciuto una vivacità civile che ha sparigliato i giochi di potere dei partiti e scritto delle pagine innovative. La valorizzazione di tale diversità è un aspetto essenziale di qualsiasi prospettiva del futuro, ma occorre evitare ogni celebrazione. La Puglia rimane una regione in bilico, diversa sì dalle altre regioni, ma non quanto vorrebbe essere, eternamente sospesa tra gli slanci ideali e la prassi del trasformismo, tra l’auto-assegnazione di grandi missioni e la paura di volare. La diversità della Puglia va custodita e curata, ma è troppo fragile per andare da sola e deve imparare a fare squadra con le altre regioni, perché altrimenti i sogni svaniscono all’alba.
La Sicilia vive invece la sua sindrome dell’autonomia nel regno incantato di un’insularità assistita dallo Stato. In questi anni essa conosce una stabilità sospetta, che è stata capace di mettersi alle spalle gli anni delle stragi, costruendo una pax mafiosa che ha continuato ad alimentare sotto traccia i vecchi circuiti di potere. Lo statuto speciale permette larghezza e mediazioni altrove impossibili e la bandiera dell’autonomia sembra essere riuscita a presentare ogni tentativo di conflitto e di rinnovamento come un conato moralistico, minoritario e al fondo antisiciliano. L’autonomia espunge come estranei al senso comune tutti quelli che non stanno al gioco dei nuovi equilibri. Non a caso il leader emergente di questo autonomismo di Stato è un democristiano esperto nel costruire alleanze con il cemento delle risorse pubbliche. E’ una Sicilia ripiegata su se stessa e sempre più separata dal resto del Mezzogiorno, lontana da quel ruolo nazionale recitato in altre occasioni della sua storia.
La Calabria attraversa invece un momento molto difficile, e nel conflitto tra la sua parte settentrionale e quella meridionale la prima sembra aver perso la carica e l’egemonia che aveva conquistato nella stagione dei sindaci. Le spinte innovative sono state lentamente riassorbite all’interno di un immobilismo che sembra aver espunto la speranza stessa del cambiamento. Quest’ultimo sembra anche qui condannato a giocare un ruolo sempre più marginale: alcune elites intellettuali spesso incapaci di incontrarsi tra loro, i sussulti giovanili contro gli assassini malavitosi o la manipolazione delle istituzioni ad opera dei gruppi di potere, frammenti di società civile che tentano generosamente di mutare il rapporto tra cittadini e politica, ma sono lampi di una tempesta che sta scemando all’orizzonte, mentre torna il sereno del sempre uguale, di uno smottamento senza fine. E’ la sindrome dell’immobilismo, di un sentimento di impotenza che sembra dominare lo spirito pubblico.
La Lucania, infine, che aveva sperato di aprire una nuova pagina della modernizzazione del sud con la Fiat di Melfi, non solo sembra essere rimasta al palo, ma anche aver perso quello statuto di isola felice che la voleva estranea alla penetrazione dei fenomeni malavitosi. La narrazione dell’incrocio virtuoso di modernità e tradizione si scopre debole.
A fronte di questo quadro frammentato e deprimente di un sud “sparpagliato” sta la perdita di capacità di sintesi dei partiti, le cui classi dirigenti locali costituiscono ormai una sintesi di subalternità ai palazzi romani e di cartelli elettorali più o meno solidi. Non c’è più una classe dirigente meridionale capace di pensare il sud nel suo complesso, né luoghi dove si tenti di costruirla. E quest’assenza è insieme un sintomo e una causa del drammatico indebolimento del sud. Per invertire la tendenza occorrerebbe un’immaginazione geopolitica coraggiosa capace di contrapporre a questa frammentazione un’idea forte e unitaria del Mezzogiorno, occorrerebbe che le forze migliori del sud avessero voglia di aprire una pagina nuova. E occorrerebbero anche le risorse concrete per mettere in campo questo tentativo, risorse che invece, a partire da quelle finanziarie, sono finite, da tempo e per colpa degli stessi meridionali, in altre mani: se il sud ha, come sostiene qualcuno, poca voce, è anche perché quando la voce c’è, i microfoni sono lontani, a far da corolla come sempre ai poteri forti, che sono tutti altrove.
Confesso di aver provato un sano piacere a leggere l’articolo di Franco Cassano. Sentivo proprio il bisogno di essere riportata drasticamente alla realtà, dopo questo lungo soporifero perfido bagno di trivialità di ogni genere con un’opinione pubblica tutta schiacciata sul desiderio di immortalità pecoreccia del nostro premier e della nostra classe politica, costretta a riflettere sulla traslazione fra potere e potenza (evito gli aggettivi che in genere si associano al concetto). Quello che sta avvenendo in questi giorni è la riprova di quanto ripeto continuamente ai miei studenti. Il codice dello spettacolo è un’arma a doppio taglio, nel momento stesso in cui lo utilizzi – se pur capace di catturare l’attenzione anche dei più distratti – ti riduce a marionetta in balia dei desideri, delle perversioni e degli istinti peggiori che la rappresentazione è capace di riesumane. Non c’è bisogno di ricordare cose lontane come i combattimenti fra gladiatori o la corrida per riflettere su qualcosa che è più di un bel titolo: sangue e arena.
La regionalizzazione della ragione è il portato di politiche federaliste monche perché non accompagnate da una seria riflessione su ciò che resta dello stato, dopo che lo stato è diventato una sommatoria di regioni. Perché si omesso di effettuare il passaggio chiave fra “state“ e “government“ costruendo un nuovo senso di identità degli italiani ancora in cerca di un principio di unità dopo il fallimento di quella geografica.
C’è dunque materia per riflettere, per ritrovare i modi ed i luoghi per la formazione di una classe politica dotata di respiro. Di respiro lungo e visione prospettica. Passando magari dalla riaffermazione forte e decisa del diritto positivo, dell’uguaglianza di fronte alla legge, dei reati sostanziali contro il Paese (dalla corruzione al peculato).
La fine dei miei studi universitari è stata quasi interamente dedicata ai problemi dello sviluppo del Mezzogiorno, quando l’approccio dominande era quello dello sviluppo locale e il punto di riferimento intellettuale era la rivista Meridiana. Era alla moda in quel periodo fare ricerche sugli strumenti della programmazione negoziata ed anch’io ne feci una. Per fortuna alcune guide scientifiche, fuori dal circuito politico, mi spinsero a non dismettere totalmente i meridionalisti “classici” (che a me comunque sembravano molto attuali e contemporanei rispetto a quello che andavo osservando sul campo) e così dopo non molto tempo, mi convinsi che per le regioni del Sud, la “ricetta” migliore per lo sviluppo non fosse il locale, la piccola impresa, il made in Italy, il capitale sociale, le virtù civiche, etc. Oggi leggendo lo scritto di Cassano che caratterizza le regioni meridionali, mi sembra che il quadro della questione meridionale sia stato complicato da un nuovo elemento: la regionalizzazione delle politiche. Si tratta di un processo che accentua l’autoreferenzialità del funzionamento della macchina politico-amministrativa con effetti imprevisti sul ruolo e l’azione dell’attore pubblico e delle politiche pubbliche. Effetti, però, che erano stati avvertiti nella stagione dello “sviluppo locale”: dai patti ai contratti, dai Pit alle agenzie di sviluppo: la costituzione di pratiche di governance con risultati sub-ottimali a livello economico, sociale e politico; una governance “dei piccoli passi”, a velocità ridotta per regioni che invece dovrebbero rincorrere. In questa situazione, indicare vie da percorrere è ancora più complesso. La mia impressione è che vada cancellata definitivamente ogni situazione di emergenza e quindi di intervento straordinario; successivamente l’attore pubblico dovrà essere chiamato al suo ordinario ruolo di amministrazione efficiente dell’esistente e di realizzazione efficace di visioni politiche condivise e lungimiranti che – ahimé – fanno fatica a venire alla luce in un sistema politico scarsamente partecipato e legittimato.
Non conoscendo a fondo la realtà delle singole regioni meridionali, posso solo commentare il processo che il prof. Cassano propone come “regionalizzazione” della ragione. In sintesi, una conseguenza di due fenomeni correlati che definiscono la nostra cornice esistenziale: da un lato, l’abbandono da parte del potere centrale istituzionale, e dall’altro il conseguente irretimento e sottomissione all’intreccio tra partiti – ultimo paradossale aggancio con lo Stato – e affarismo locale. Il problema nasce dal fatto che quest’abbandono avviene ai danni di un soggetto, il Meridione appunto, che è un nome geografico cui non corrisponde un’unitarietà culturale; e ciò, per un verso, può non costituire un problema, qualora ognuna delle parti sia abbastanza coesa da saper portare avanti una propria economia di vita. Altro il discorso se ciò, come in questo caso, avviene in un quadro di frammentarietà relazionale tra soggetti che avrebbero più da guadagnare che da perdere individuando percorsi comuni, inter-e trans-regionali, di soluzione dei problemi. Ma prima ancora che al livello istituzionale, si ripresenterebbe il nodo essenziale che (ri)nasca tra i cittadini del Sud – la cui storia lontana e recente li accomuna tra loro innegabilmente più che a quelli del Nord – la coscienza di una condizione esistenziale condivisibile, e che difficilmente sarà rappresentabile entro le sedi dei partiti locali, qualora esse continueranno ad esistere come emanazione di un potere centrale che è paradossalmente tanto più forte quanto più si tiene lontano, e la cui grossolanità (non voglio dire ingenuità) si manifesta nel riduzionismo del Sud a Napoli, e viceversa nell’innalzare Napoli a emblema del Sud. In altre parole, si deve attivare un processo di ricostituzione di un’identità meridionale.
Se ciò accadrà, si potrà benissimo ribaltare la prospettiva, e magari un giorno arrivare a chiedere con fermezza una dolce secessione dal Garigliano in su.
l’articolo di Cassano coglie in pieno, seppure nei limiti imposti dal formato giornalistico, la situazione meridionale. Il punto centrale è che, a differenza di 15 anni fa, il ripiego del Mezzogiorno su se stesso è rafforzato da un contesto nazionale stanco, in cui viene meno ogni tipo di progetto ed è comodo così riprodurre l’esistente: si tratta di un processo isomorfico dei comportamenti delle persone che si palesano in ogni ambito organizzativo, dai partiti alle imprese. si può parlare di una società nazionale “devota”, priva di orizzonti verso cui tendere. il decentramento amministrativo paradossalmente ha reso ancora più forti tutti quei meccanismi di controllo che impediscono qualsiasi forma di progettazione dal basso, sia quando si tratta del percorso professionale del singolo, sia quando si tratta di azioni collettive nel campo della res pubblica. Oggi non vi è nè Stato, nè mercato, la logica predominante è quella del clan, fondata sull’emotività del potere a breve termine.
ps. una riflessione andrebbe avviata, senza perdere di vista il nesso tra centro e periferia, in merito all’Appennino meridionale che va dalla zona di Melfi, passa per l’Irpinia ed il Sannio, fino a toccare buona parte del Molise. Si tratta di un’area con proprie caratteristiche sociali, culturali ed economiche.
Un primo appunto sulla questione, dopo ci ritorno su:
L’immagine di un mezzogiorno frammentato, senza un orizzonte comune, lontano dall’idea storica di meridione è tanto suggestiva quanto reale. Puglia, Calabria, Lucania, Sicilia e infine la Campania, la terra dove sono nato, in un sano tentativo di rompere con un passato, con una storia, fatta di “imbarbarimento” politico e culturale è finito con il ridisegnare prospettive con tinte ancor più fosche di quelle già trascorse. A partire proprio dalla Campania, nutrita negli anni ’90 a suon di rinascimento, oggi si ritrova a vivere periodi comparati addirittura al tempo del colera.
Credo che però la complessità della questione sia da osservare sotto un altro e non meno inquietante aspetto.
La tanto fomentata crisi dello stato e la retorica politica e culturale della frammentazione, negli ultimi anni, ha farcito manuali e saggistica fino a diventare vero e proprio paradigma di lettura ed interpretazione, nonché ad arrivare ad orientare gli interventi e le pratiche politiche di gestione e sviluppo del territorio. Se poi a queste dinamiche si associano le trasformazioni politiche e costituzionali avvenute, più o meno silenziosamente, negli ultimi dieci anni si comprende quanto sia stato lungo e profondo il processo di regionalizzazione al quale fa riferimento Cassano. Il passo falso, che ha scandito il tempo di una così radicale scissione degli intenti e della quasi perdita dell’idea di mezzogiorno, è dunque senza dubbio da ricercare nella rappresentazione stessa del mezzogiorno, vessato e insultato quotidianamente, ma anche nel lungo iter fatto di processi e condanne delle attività svolte che per tutta la storia democratica ha caratterizzato il giudizio sulla questione politica ed amministrativa meridionale.
Oggi dunque noi raccogliamo i cocci di quello che per decenni ha accompagnato le regioni del mezzogiorno. Statalismo assistenziale, spreco dei finanziamenti, cattiva gestione amministrativa ecc sono tutti termini che, più o meno, hanno accompagnato le vicende del mezzogiorno e che oggi, attraverso forme di pressioni politiche e governative, hanno acquisito la naturale connotazione di interventi, in primis di federalismo fiscale.
Articolo denso che pone questioni rilevanti quanto complesse. Il Mezzogiorno – le sue regioni – è sempre più arroccato a difesa di una ragione d’essere locale, o meglio localistica, incapace di ripensarsi culturalmente, politicamente ed economicamente entro un contesto nazionale e sovranazionale. In parte concordo con la diagnosi, mentre nutro alcune perplessità sulle principali cause alla base della crisi e della sua degenerazione attuale. Innanzitutto che cosa stiamo osservando quando affermiamo che sia in corso un processo di regionalizzazione della ragione? O meglio, da quale punto prospettico osserviamo i territori del Sud? E in particolare, considerando quali dimensioni particolari del mutamento?
L’ultima domanda nasce dalla sensazione che se non definiamo la dimensione nodale del mutamento da cui prendere spunto per ricostruire la totalità di una data formazione sociale rischiamo di produrre discorsi autoreferenziali. La decadenza è civile, politica, sociale, economica, finanziaria, etica, filosofica; la decadenza su cui stiamo riflettendo si struttura intorno a queste molteplici dimensioni analitiche, la decadenza si origina e si consolida per il tramite di connessioni mutevoli tra queste dimensioni. Al momento – anche alla luce delle questioni sollevate nei commenti – intendo soffermarmi sull’introduzione delle politiche per lo sviluppo locale, sulla regionalizzazione dello sviluppo (che in un certo senso si sovrappone a quella della ragione) e sulle interpretazioni risultate dominati nella lettura e nell’interpretazione di entrambe le tendenze.
Anticipo subito che il mio percorso di studio e di ricerca mi induce a considerare i suddetti mutamenti fondamentali per risollevare le sorti del Mezzogiorno. La valorizzazione della dimensione locale dello sviluppo si riconnette con la valorizzazione delle autonomie locali, con le possibilità di espressione democratica della cittadinanza, con l’introduzione di un governo dello sviluppo liberato dalla voracità della ragione economica e competitiva. Una ragione, quest’ultima, sistemica, eteronoma. Ora il punto è comprendere perché la stagione delle politiche territoriali – e più in generale del paradigma dello sviluppo locale – non sia stata capace di invertire quella decadenza posta al centro del nostro dibattito. Ciò che raccomandiamo alle regioni meridionali e alle sue classi dirigenti – coltivare un’immaginazione geopolitica e quindi “aprirsi” al contesto globale equipaggiati di una rappresentazione unitaria del Mezzogiorno – dobbiamo raccomandarlo anche a coloro che osservano e riflettono circa il declino delle regioni meridionali e delle sue classi dirigenti. Assumere questa prospettiva potrebbe alleggerire il fardello colpevolizzante che periodicamente posizioniamo sulle spalle di un Sud ansimante già dopo l’unificazione nazionale. Forse il fatto di aver introdotto, agli inizi degli anni novanta, le politiche territoriali proprio a cavallo di una delicata fase di transizione ha inciso non poco sui loro esiti. Una transizione lenta che ponendo in discussione i modelli regolativi fordisti-keynesiani – depotenziandone dall’esterno la loro efficacia – non ha certo contribuito a creare le condizioni ottimali per riadattarsi alle rinnovate esigenze capitalistiche. In sintesi, non si è riusciti a trovare accordo su chiare politiche che offrissero una risposta ai processi di ridefinizione dell’intervento statale nell’economia e nella società del paese; ambiti d’azione che nel frattempo si andavano trasformando.
Se consideriamo poi il decisivo e altalenante contributo dell’Unione europea nel sostenere le politiche per lo sviluppo dei territori il fardello si alleggerisce ulteriormente. Da un lato, la capacità della Commissione Delors di rompere alcuni schemi programmatori grazie al concetto di coesione sociale e di convergenza, dall’altro l’anima tecnocratica della Commissione che ha finito per standardizzare ciò che si presupponeva dovesse essere lasciato alla capacità ideativa dei governi regionali e alla società civile. Tutto ciò, osservando ad esempio le strategie di sviluppo multidimensionali finanziate tramite i fondi europei, ha fortemente limitato quella regionalizzazione dello sviluppo posta tra i principali obiettivi comunitari. Nel senso che da questo punto di vista più che di regionalizzazione della ragione è possibile parlare di omologazione della ragione. Proseguendo, non possiamo infine sottovalutare le pressioni che a livello mondiale la svolta neoliberale sta esercitando sui modelli regolativi nazionali e subnazionali. Aumentano vertiginosamente le disuguaglianze tra le classi sociali, e gli interessi economici – speculativi – rappresentano i soli interessi legittimi per orientare dialoghi, riforme e pensieri sul futuro assetto socioeconomico. Ad oggi, producendo sforzi costanti e coordinati, possiamo regionalizzare molto poco; gli spazi di autonomia si restringono velocemente e in mancanza di una risposta sovranazionale di pari intensità e di senso contrario, le ragioni del sociale, del civile – e oserei dire dell’intellettuale – non riescono a varcare la soglia dei governi egemonici.
Conclusione? Quello che semplificando stiamo etichettando come sviluppo locale, dal basso, è stato delegittimato prima ancora che potesse esprimere le sue possibilità “riformistiche”. Prima ancora che le sue – implicite – ricadute sociali potessero assurgere a metro di valutazione. Anzi nonostante i vincoli, è riuscito a produrre esperienze significative di sviluppo partecipato pur essendo sprovvisto di una coerente cornice programmatica nazionale e di un sostegno politico europeo. Altre congiunture negative si sono sovrapposte a quelle brevemente accennate, tra tutte la deriva politica-partitica e quella propriamente scientifica e del sapere storico sociale. Il punto è che, nell’analizzare le cause della decadenza nostrana, occorre resistere alla tentazione di trascurare anche una sola di queste diverse traiettorie. E a tal fine lo sforzo di comprendere la desolante realtà meridionale non potrà che essere collettivo, coordinato e costante.
Sottolineando ancora l’importanza delle riflessioni sollevate da Franco Cassano, funzionali alla costruzione di un punto di vista metadisciplinare, spero che il dibattito possa proseguire ed arricchirsi ulteriormente.
Volevo aggiungere:
Il Mezzogiorno non è uscito dall’agenda politica, soprattutto grazie all’operare delle politiche europee di sostegno alla aree in ritardo di sviluppo che oggi alimentano nuovi flussi finanziari con il Fondo di Coesione. Il Mezzogiorno esiste, comunque, come area residuale e stenta a trovare una progettualità propria o un suo paradigma di sviluppo. Non più di un paio d’anni fa, però, si deve ricordare l’iniziativa ad opera proprio di Vendola e Bassolino di creare un soggetto sovranazionale: il “Sud” che non solo voleva essere soggetto politico nazionale, va si poneva anche al centro del bacino Euromediterraneo con la pretesa di governare i rapporti tra la sponda Sud e quella Nord del Mediterraneo. Sappiamo come è andata, ma l’esperienza non va dimenticata.
Le osservazioni di Enrico sono complementari, se non addirittura speculari, a quelle fatte da Cassano. La dimensione culturale e simbolica alla quale fa riferimento Cassano sono il risultato dei processi ai quali si fa riferimento nei diversi interventi. Dalla riforma del sistema elettorale regionale a quella del Titolo V della costituzione l’orizzonte era sempre lo stesso…federare lo stato.
Ora però, come sottolinea Cassano, la trasformazione, la riforma, il cambiamento è nel suo stadio finale, esso coinvolge la sfera culturale e sociale.
Infatti l’articolo di Cassano è ordinato più per territori (Salento, Lucania, Napoli ecc) che per enti o istituzioni. Il suo campo di azione è rivolto alle rappresentazioni più che alle politiche e agli interventi strutturali eseguiti negli ultimi anni.
Per questo motivo ribadisco che i suggerimenti posti dai vari commenti vanno a coprire una sfera che nel post è solo rimandata, elegantemente allusa, ma mai realmente messa sul tavolo della discussione. Trovo quindi che gli appunti e i commenti fatti ad ora vanno a coprire un segmento che nella riflessione di Cassano ricoprono un ruolo residuale ma che vadano presi con serietà se si vuole davvero ricomporre il complesso mosaico culturale e sociale che ad oggi continuiamo a chiamare mezzogiorno.
Per ampliare la discussione, segnalare che il 18 luglio scorso è stato presentato a Roma il Rapporto 2008 della SVIMEZ sull’economia del Mezzogiorno. Per chi non è in grando di accedere direttamente al volume, in rete sono disponibili alcuni significativi documenti di sintesi e di commento dei principali risultati dell’annalisi contenuta nel Rapporto.
Essendo essenzialmente convinto dell’adeguatezza del modello analitico che utilizza la SVIMEZ, mi permetto di rimandare a http://www.svimez.it/ dove acquisire informazioni dettagliate sulla condizione economica del Mezzogiorno.
Una frase ascoltata per caso e distrattamente in questi giorni, mi rimbomba in testa leggendo il giornale di oggi: “Noi cittadini elettori tendiamo a dimenticarci che il governo è stato messo lì da noi, per fare i nostri interessi”.
E la mia non vuole essere le solita riflessione sulla scarsa partecipazione politica del cittadino; è che mi accorgo di come questo assunto apparentemente tanto scontato e banale sotto sotto non lo sia. Tanto per governati quanto per governanti.
Da quando la politica ha smesso di essere una cosa seria? Siamo davvero così “alienati” da aver perso il senso della realtà?
Mi rendo conto che queste parole possono sembrare un po’ forti, specie se immaginate in bocca ad una ragazzetta di 22 anni ma altre parole come “pasticcio”, “decisioni subite”, “imbarazzo”…sono dette, scritte e lette con imbarazzante (per l’appunto) tranquillità.
In un altro articolo si legge “Non l’abbiamo voluto noi”: e vorrei chiedere “chi allora?”. Chi c’era in aula con voi?
Come in un incredibile gioco di prestigio, politici e partiti si nascondo dietro un dito e si passano la responsabilità (o sarebbe meglio dire la colpa?) l’un l’altro.
Già che ci sono comincio a credere che le cose succedano da sole.
Vero è che noi dovremmo prenderci la responsabilità del nostro disinteresse e del voto che diamo ma loro, almeno la responsabilità delle decisioni che prendono.
Dopotutto lo fanno per noi…