Proteste: un’altra lettura…semmai ce ne fosse bisogno
Da giorni la radio manda servizi ed interviste sui giovani precari derubati del loro futuro. Da giorni leggo articoli di Saviano, risposte a Saviano, attacchi a Saviano. La Zanzara su Radio24 continua a dare voce – al solo scopo di ridicolizzarla – alla rabbia di chi ormai non trova più nemmeno le parole per esprimere ciò che prova, con la speranza di farsi ascoltare. Da stamattina una bellissima lettera al Corriere della Sera scritta dalla madre di una trentenne precaria tiene banco su Facebook ed in tanti altri capannelli mediatici. Pone una questione chiave con estrema chiarezza – come solo le mamme a volte sanno fare con un’onestà intellettuale spesso sconosciuta a molti notisti: i giovani di ieri erano abituati a costruirsi con grande fatica il proprio futuro sapendo che c’era e che dipendeva anche dal proprio impegno. Poi ci sono stati gli anni dell’ottimismo, della crescita esponenziale delle attese sociali veicolata dalla pubblicità prima e dalla politica poi. Anni di belle speranze per tutti. E ci siamo seduti sugli allori, appagati e fiduciosi in un futuro in cui – quantomeno – le nuove tecnologie della comunicazione sarebbero state capaci di incidere lì dove noi ci eravamo arresi. Disimpegnandoci dalla politica e demandando alla forza virtuale di una moltitudine che non è più classe sociale né movimento politico, il compito di trovare modi e spazi di nuova espressione. Nell’amarezza di quella madre si legge il senso di colpa e responsabilità determinato dalla consapevolezza che sulle generazioni che precedono ricade sempre, ed in qualche modo, il futuro di quelle che seguono. Di non aver compreso di quali e quanti illusioni era stato caricato il loro futuro. E’ una spiegazione vera, ma non è tutta la spiegazione.
La Repubblica dei Media, l’Italia dal politichese alla politica iperreale di Carlo Marletti (Il mulino, 2010) fornisce una lettura alla lontana, sociologica, sul nostro tempo, imputando agli effetti di iperrealtà generati dai media e dalla politica mediatizzata l’inflazione delle attese sociali. Di qui, allargando lo sguardo alle proteste di questi giorni si può comprendere che l’origine di tanto malessere è più profondo e risiede nel processo di disillusione e disincanto che si produce quando ci si sveglia dal sonno della ragione. Partiamo da una considerazione banale: la precarietà, l’insoddisfazione professionale, la difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro non può essere considerata come una questione che colpisce i soli giovani di sinistra. L’equazione protesta uguale sinistra appare come una forzatura che non giova affatto in termini di opinione pubblica. E che – piuttosto che politicamente – trova un elemento di coagulo forte nella comune idea dell’inganno, di aver votato credendo ad una terra promessa proprio mentre quella stessa terra promessa (lo studio, il lavoro, il futuro) diveniva terra di saccheggio partitocratico e clientelare. La visione edulcorata ed immaginifica proposta dai governi di destra con le sue parole d’ordine rigorosamente plastificate: governo del fare, meritocrazia, partito dell’amore e promessa di felicità per tutti, nutrita da una massiccia dose di iperrealtà (dal bunga bunga di Berlusconi al presevartivo di Assange, dalle chiappe del premier bulgaro ai lettoni di Putin, dalle escort ormai sdoganate come traduttrici esperte di un linguaggio prima tabù, alla cosmografia di un’Italia ridicola, dimezzata ed annichilita nel linguaggio e nei simboli che la descrivono, così come nei sentimenti che è chiamata ad esprimere). Tutto questo non trova più alcuna possibilità di assonanza con la longa manus del potere che – come nell’impero – ha perso il senso della propria vergogna ed impudicizia.
Di fronte al deprimente spettacolo di deputati di cui si compra la coscienza (barattando la vergogna con un mutuo riscattato), di fronte all’arroganza del familismo amorale che distribuisce risorse e posti di lavori a parenti ed amici, di fronte al clientelismo, all’inquinamento sistematico di ogni gara d’appalto al fine di lucrare allegramente su terremoti ed alluvioni, di fronte ad opportunità concesse a trote e tronisti dall’aria davvero poco intelligente, a veline e belle gnocche, al dilagare di una cultura che premia la furbizia piuttosto che la preparazione, che destina risorse alla scuola privata sottraendole a quella pubblica, di fronte alle forze del disordine che nel tempo hanno smantellato tutti gli elementi di coesione sociale che tenevano in piedi questo paese fino a ridurlo ad un’unica vulgata populistica, di tutti contro tutti, mettendo dunque le premesse al controllo autoritario e, soprattutto, preventivo. Di fronte a tutto questo è crollato il mito dell’ottimismo, la favola iperreale ed edonistica del piacere per tutti e con poca fatica. La rabbia nasce da qui e proprio perché nasce dal disincanto non ha altro modo che esprimersi che con la violenza o, in alternativa, con l’uscita dal mondo, con il rifugio ostinato in un angolino protetto, impermeabile alla verità ed alle voci dissonanti. Come dimostra l’iniziativa FacePadania, il social network degli italiani dimezzati (e, se solo lo ammettessero, anche disillusi). Viene in mente la Grande Muraglia citata da Baricco, che anziché proteggere la cittadella dai Barbari, li inventava.
Complimenti Ros, un’analisi di una lucidità estrema che contiene anche la rabbia, l’amarezza e l’indignazione che ci si porta dietro tutti (o quasi) da troppo tempo.
quando avevo 15 anni feci filone a scuola per la prima volta. mia madre se ne accorse, ma non disse nulla. solo, alla sera mi fece trovare in camera uno striscione con una frase di un celebre film “il lavoro è fatica e lo studio è sacrificio: scegli, qualunque strada porta sofferenza e impegno”. in un’epoca in cui le amiche avevano dalle madri pacche sulle spalle, e la visione della possibilità di avere il pane e le rose, mi sentivo diversa.
il falso ottimismo sta passando, ma occorre comunque ripartire da tre, come direbbe Troisi. Oggi ho ascoltato un bel discorso, in cui nuovi presidenti ricordavano che anche piccoli pezzi di grandi apparati possono fare la differenza, se dimostrano di essere buone strutture, e che anche da piccole innovazioni, frutto di fatica e sacrificio, può ripartire un’Italia migliore.
il falso ottimismo è passato, ma noi con ottimismo e lucidità dobbiamo impegnarci per il futuro, smantellando ciò che non funziona, e rinsaldando ciò che c’è di buono.
Giovane, che bella parola, lieve e leggera, prodiga di profumi e doni, che rimanda all’idea dei fiori che si schiudono, dei limoni acerbi, del giorno che comincia. Essere giovane significa avere un rapporto privilegiato con il tempo, perchè i giorni che passano sono alleati, perchè il domani è una terra da conquistare armi alla pari, perchè il passato è un ricordo vivo e veritiero non ancora da reinventare. Cosa differenzia i giovani di oggi da quelli di ieri? Il corto circuito tra il presente e il futuro: le mille realtà che si vivono contemporaneamente impantanano in un attimo fuggente eterno da reiterare con le unghie e con i denti e il futuro è un aldilà ateo senza speranza della redenzione.
Ho letto da qualche parte…non ricordo più dove …che il futuro non è più la logica conseguenza del passato ma un presente diluito nel tempo…