Lotta Continua e tre pacchetti mille lire
da Alzaia di Erri De Luca
Nella mia gioventù ho preso parte a un movimento rivoluzionario di sinistra che si chiamava Lotta Continua. Era un’organizzazione volontaria, non governativa, non parlamentare. Aveva un giornale con quel nome e i militanti come me lo andavano a vendere a cento lire agli ingressi delle fabbriche. Davanti all’Italisider di Bagnoli e di Taranto si gridava il nome del giornale, come al mercato, nel buio del primo turno. I contrabbandieri di sigarette strillavano il loro “tre pacchetti mille lire”, i gridi loro e i nostri si mischiavano. Non essendo merci in concorrenza e stabilendosi lì fuori all’alba una certa simpatia reciproca, si arrivo a un’intesa che oggi si definirebbe sinergia. I contrabbandieri e i militanti stavano vicini e il grido era così diventato: “Lotta Continua e tre pacchetti mille lire”, praticando uno sconto alla clientela. Contrabbandieri, militanti rivoluzionari, operai: non c’era altra società intorno a quell’ora. Era facile sentire di appartenere a quella mescola dell’umanità e credere in quella folla buia. Era il tempo in cui stavo fuori dai cancelli, non ero ancora operaio. Poi Lotta Continua finì e io cominciai, senza quel movimento, senza giornale, a fare l’operaio. I contrabbandieri avevano ritoccato i prezzi, il Psi di Craxi governava e alcuni dei miei compagni di prima andavano dietro al suo piffero.
C’è un tempo nella vita di ognuno in cui c’è una corrispondenza tra le cose, il loro prezzo e i denari che si hanno in tasca. Per quelli della mia età c’è stato il tempo delle mille lire, per me fissato dal grido rauco dei contrabbandieri del Sud: “Lotta Continua e tre pacchetti mille lire”.
«Eppure, il cambiamento sociale e politico si è sempre realizzato, dappertutto e in tutti i tempi, a partire da una miriade di azioni gratuite, a volte così inutilmente eroiche da essere sproporzionate rispetto alla loro efficacia: le gocce di una pioggia ininterrotta di lotte e sacrific iche alla fine inondano i bastioni dell’oppressione, se e quando i muri dell’incomunicabilità tra solitudini parallele cominciano a creparsi, e il pubblico diventa “we the people” » (Castells, Comunicazione e potere, 2009)