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Mai. Per la giornata della memoria

Certo che dev’essere difficile.
Dev’essere difficile far finta di niente, continuare a vivere come se nulla fosse successo, chiudere gli occhi sperando di dimenticarsi ogni cosa. Dev’essere difficile desiderare un’amnesia grave a tal punto da eliminare la propria persona, eliminarsi per ritornare impossidente di ricordi come a quando si aveva pochi giorni di vita.
Dev’essere difficile morire per rinascere.
Purtroppo, perire dopo esser sopravvissuti ad una guerra, ad uno sterminio è uno spreco. Molte persone hanno dovuto aprire la propria anima per svuotarsi, per strapparsi un pezzo di cuore per non soffrire più. Alcuni hanno cantato, altri hanno scritto, altri ancora hanno dipinto e poi c’è chi ha raccontato, ha mostrato i segni che la cattiveria aveva lasciato sul proprio corpo, ha sensibilizzato le generazioni future per far sì che un silenzio del genere, il silenzio dell’oblio della violenza, non venisse udito mai più. Quel silenzio ha rotto i timpani a molti scrittori che hanno fissato su carta le urla disperate, i sospiri, il fumo dei forni crematori, e il gas, l’umidità dei corpi nudi trattati come fossero pezzi di carne senza dignità. Hanno scritto la consapevolezza: la consapevolezza di ciò che era successo. Ne hanno preso atto, hanno compreso trascrivendo l’esperienza in parole fatte di inchiostro e, quindi, parole materiali. Se è scritto qualcuno lo ha pensato o lo ha vissuto, se è scritto molto probabilmente è vero. Ogni pagina che hanno riempito pesa, ti pesa al cuore, come se il nero stampato fosse piombo.

Certo che la guerra deve aver influenzato un po’ tutti: chi era al sicuro, chi era indifferente e, addirittura, chi era ignaro. Deve aver influenzato, proprio come una malattia, la mano tremolante dei bambini che cercavano di colorare all’interno dei bordi, la musica nella testa di un compositore che scriveva note, crome, minime, come minimo rassegnate. E il virus si propagava, arrivava fino alle dita di un musicista che suonava in un ristorante o, magari, sopra una nave accompagnando i dolci schiocchi delle labbra di due innamorati a cui era rimasto solo il loro amore.
Primo Levi scriveva, nel 1958, che “la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo” e, in effetti, aveva più che ragione. Io, che sono fuori da tutto questo, non riesco a trovar parole per descrivere a pieno il sentimento che mi provoca il ricordo. A volte però servono parole semplici, come quelle che usa Guccini:
“Io chiedo come può un uomo
uccidere un suo fratello
eppure siamo a milioni
in polvere qui nel vento”.
Quel vento frusciava nelle orecchie di E. Wiesel e, insieme al silenzio, gli fece capire che mai, mai avrebbe dimenticato tutto ciò, anche se fosse stato condannato a vivere quanto Dio stesso.
Mai.

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