Un voto sull’equilibrio mondiale
Messa da parte la zucca della vigilia di Ognissanti, gli americani si sono presentati alle urne in un clima di forte partecipazione. L’attenzione che si ? dedicata all’evento delle elezioni presidenziali, sia dentro che fuori gli Stati Uniti, sembra andare al di l? dell’importanza attribuita al rinnovo della carica presidenziale: il voto, in modo pi? o meno consapevole, ? stato, infatti, da pi? parti considerato come una scelta storica in grado di influenzare il destino del mondo.
Raramente in passato le ripercussioni dei risultati elettorali sul sistema globale sono sembrate pi? dirette e tangibili. La designazione del nuovo presidente ? stata ritenuta capace di cambiare il volto della politica estera americana, incidendo sulla stessa definizione del ruolo degli Stati Uniti, in un particolare momento storico in cui le ipotesi sulla fine della storia e delle alternative all’affermazione del capitalismo lasciano spesso il posto alle profezie sugli scontri di civilt? e alle congetture sulla sua gestione.
La contrapposizione fra i due candidati ha ricalcato l’antitesi fra due modi diversi di intendere il rapporto fra Stati Uniti e il resto del mondo. Da una parte troviamo la strategia dell’internazionalismo unilaterale, del decisionismo, della linea dura contro il terrorismo, dello svuotamento delle prerogative degli organismi internazionali. Questa posizione si ? gi? incarnata nella strategia politica che Bush ha adottato nel suo primo mandato, durante il quale il presidente ha parlato, con i toni apocalittici che caratterizzano molti suoi discorsi, di una lotta fra il bene e il male. Secondo una concezione manichea della politica ha fatto riferimento spesso alla missione salvifica dell’America nei confronti del mondo ed in particolare del regno delle tenebre: l’Islam.
Dall’altra parte stanno le ragioni del dialogo, della contrattazione, dell’inclusione delle forze politiche non statunitensi, difese dal candidato democratico. In questo caso per? non abbiamo un insieme di idee gi? fissate e comprensibili al grande pubblico, una sorta di bandiera riconoscibile dalla massa, ma un’adesione moderata alla real politik, la volont? di affrontare le questioni politiche caso per caso piuttosto che in un progetto prestabilito.
Cos?, anche se non ? possibile ridurre l’alternativa Bush-Kerry al contrasto fra la volont? di guerra e quella di pace, ci sono elementi che fanno pensare alla centralit? del tema dell’ordine mondiale in queste ultime elezioni.
Il primo risultato di queste elezioni riguarda la forte affluenza alle urne. Si ? riscontrato, infatti, il boom delle iscrizioni alle liste elettorali, che poi si ? tradotto effettivamente in un incremento della percentuale dei votanti.
Si ? cos? interrotto un trend di decremento della partecipazione elettorale iniziato quarant’anni fa. Solo dopo l’assassinio di Kennedy, in un clima di dramma collettivo che segu? la morte del carismatico presidente, si arriv? a simili livelli di coinvolgimento della cittadinanza.
C’? chi legge in questo, in maniera ottimistica, i segni di una rinascita democratica. Cos? se il sistema politico statunitense negli ultimi tempi appariva viziato dalla mancanza di un ingrediente fondamentale, la partecipazione appunto, ora il coinvolgimento sembra rubare spazio all’apatia. Il risultato avrebbe i tratti del paradosso: il paese che pone fra i propri obiettivi l’esportazione della democrazia ritrova la propria anima democratica solo in virt? degli interventi fuori confine.
La tesi mi sembra difficilmente sostenibile. Il brusco aumento della partecipazione storicamente non ? associato a momenti particolarmente felici per la democrazia. Molti studiosi del mutamento politico mostrano ad esempio come uno dei processi che accompagna la crisi della democrazia ? l’aumento repentino del coinvolgimento della societ? civile . L’osservazione spinge a considerare la partecipazione un indizio di salute democratica solo se questa ? prolungata nel tempo.
Nel caso contrario nasce la necessit? di scavare pi? a fondo nelle motivazioni di voto. E con molta probabilit?, come forse ? avvenuto nelle ultime elezioni presidenziali, si comprender? che dietro le elezioni si cela un referendum pi? o meno esplicito su una questione chiave che coinvolge fortemente la cittadinanza. Spesso poi, si riscontra anche che non l’attaccamento alle istituzioni n? il sostegno ad una particolare parte politica spinge alle urne, ma sentimenti quali la paura, la rabbia, la vendetta.
Questo referendum che in America ha chiamato un cos? gran numero di cittadini a votare attiene al ruolo che gli Stati Uniti dovranno ricoprire nell’ordine mondiale, e chiede un consenso popolare sulla strategia imperialista messa in atto dopo l’undici settembre. La memoria della caduta delle torri gemelle e il timore del pericolo arabo non ha cos? pesato sul voto meno delle identificazioni partitiche e della valutazione dei programmi. Nessun candidato avrebbe potuto accedere alla Casa Bianca senza avere la consapevolezza dell’importanza dei temi di politica estera e dell’incidenza del fattore emozionale.
Tutto spinge ad attribuire a queste elezioni il carattere della peculiarit?, come dimostra tra l’altro anche l’attenzione dedicata a queste fuori dagli Stati Uniti e in particolar nel mondo arabo. Al Jazeera, il noto canale di informazione musulmana, ha addirittura promosso una sorta di votazione virtuale per testare gli umori della regione araba, con il quasi ovvio risultato della sconfitta del presidente uscente. Alcune fonti statunitensi hanno poi diffuso la notizia che Osama Bin Laden abbia pronunciato durante le elezioni un ennesimo messaggio intimidatorio, in cui minacciava gli stati americani che si sarebbero schierati con Bush. Il condizionale del caso ? d’obbligo, per l’alta probabilit? che notizie del genere rispondano ad esigenze propagandistiche. Al di l? della veridicit? del fatto, la notizia aiuta a comprendere comunque la dimensione globale del confronto elettorale statunitense.
Le ragioni che spingono a dire speciali queste elezioni rispetto alle precedenti offrono a mio avviso una proficua chiave di interpretazione dei risultati delle recenti presidenziali.
Avanzo dunque l’ipotesi che la sconfitta di Kerry non derivi da meri errori di conduzione della campagna elettorale, per intenderci dalle strategie comunicative adottate per il confezionamento del prodotto politico, ma che il problema del senatore democratico sia stato pi? profondo, derivando da una erronea interpretazione della vera posta in gioco delle elezioni.
Forse ai bisogni materiali del popolo americano andavano anteposti quelli immateriali, di rassicurazione rispetto alla minaccia araba, di patriottico orgoglio per la grandezza americana, di supremazia statunitense in campo internazionale. Che poi queste aspirazioni non siano direttamente contrapposte alle motivazioni della pace ? ci? che Kerry avrebbe potuto mostrare.
Il vero distacco fra i due contendenti ? nella centratura del programma. Quello di Kerry ? stato maggiormente attento ai problemi della ripresa economica, del risanamento del welfare, ai desideri di benessere della classe media. Bush invece ha calibrato la sua campagna elettorale sulla necessit? della concretizzazione della missione americana, che si basa su due pilastri principali strettamente correlati: difesa dal terrorismo ed esportazione della democrazia.
In breve il primo ha posto al centro la politica interna guardando con moderazione ai problemi al di l? dei confini, il secondo ha riconosciuto invece la priorit? delle questioni di politica estera senza rinunciare ai toni aggressivi.
I due contendenti differiscono anche dal punto di vista di alcune caratteristiche personali. Kerry ? apparso affidabile e preparato, ma molti osservatori non gli hanno riconosciuto il fascino carismatico dei suoi predecessori democratici. D’altra parte Bush ? sembrato pi? spontaneo e deciso, capace di interpretare le decisioni dell’uomo della strada senza distacco intellettuale.
Bisogna anche riconoscere, inoltre, che come difensore della possibilit? del connubio fra pace e democrazia Kerry non ? sembrato sempre credibile, anche a causa delle sue esperienze giovanili in Vietnam. Anche per questo la sua posizione in politica internazionale, moderata e raziocinante, ? apparsa ai pi? vaga ed indecisa. Con il risultato che il democratico ha fallito sull’unico tema in grado di polarizzare la maggioranza dei consensi: il destino degli Stati Uniti nell’ordine mondiale.
Non aver compreso a fondo come dietro queste elezioni si celasse un vero e proprio referendum, e non aver puntato abbastanza sulla costruzione di una alternativa credibile alle posizioni di Bush in politica estera, ha rappresentato un vizio di prospettiva storica, in una campagna elettorale che non era come tutte le altre.
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